Il coraggio vince by Roberto Vannacci

Il coraggio vince by Roberto Vannacci

autore:Roberto Vannacci [Vannacci, Roberto]
La lingua: ita
Format: epub
editore: EDIZIONI PIEMME
pubblicato: 2024-02-23T12:00:00+00:00


13

C’è una nuova interruzione per la pubblicità. Passa la ragazza di prima che ci offre dell’acqua fresca. Le sorrido, accetto volentieri. Si è creato un po’ di movimento in studio. I tecnici spostano le luci, sbrogliano matasse di cavi, i macchinisti riallineano i carrelli delle telecamere. L’operatore con la macchina a mano, quello che mi sembrava un paracadutista, si toglie l’imbragatura e si massaggia le spalle, distende le braccia. La conduttrice – senza scendere dallo sgabello – si toglie una scarpa e muove le dita del piede. Osservo in silenzio questa galleria di piccoli gesti; sono tutti molto umani, mi ricordano dettagli di vita militare. Poi si sente una sirena che non è l’annuncio di un bombardamento. Tutti si ricompongono. L’operatore indossa l’imbragatura, la conduttrice calza il décolleté. Un ultimo sorso d’acqua.

«Pronti in scena» dice il regista nel microfono. «Tre, due, uno: in onda.»

Applausi del pubblico, il sorriso della conduttrice. Sorrido anch’io, anche se credo di non essere inquadrato.

«Generale» dice la padrona di casa in tono benevolo, quasi divertito «non le sembra eccessivo affermare di essere l’erede di Giulio Cesare?»

Adesso la camera è ferma sul mio primo piano. Sono obbligato a sorridere. Quindi sorrido. Sto per dire qualcosa, ma il direttore del giornale interviene. Dev’essere un’abitudine.

«Giulio Cesare è stato forse il più grande condottiero mai esistito; non sappiamo invece quante battaglie abbia vinto il generale Vannacci.»

Applauso del pubblico in sottofondo e primo piano della mia faccia che non riesce più a sorridere. È imbarazzante, ma è niente rispetto a un interrogatorio. Ho lavorato molto sulla condotta dopo la cattura, proponendo anche all’esercito un corso tenuto dagli istruttori del Col Moschin. So come si fa. Prendo fiato e rispondo. Partendo da lontano.

«Mio nonno, classe 1898, ha fatto la Prima e la Seconda guerra mondiale. Ha servito anche nella guerra di Spagna. Ha combattuto per la società in cui sono nato e cresciuto. E che mi piace. Ho girato il mondo, sempre spinto dalla curiosità di conoscere e capire; ho imparato le lingue spinto dalla necessità d’integrarmi. Sono stato sempre uno straniero in terre straniere. E da vecchio soldato – non soldato vecchio – mi sono sempre adattato, imparando da tutti.»

«Cosa c’entra con Giulio Cesare?» sbotta il giornalista stizzito.

«Infatti. Non c’entra niente. Perché io non ho mai scritto di essere il suo discendente.»

Prendo il libro dalla cartella. È curioso che esca al contrario, ma nessuno lo nota. Lo raddrizzo, lo apro. Proseguo.

«Ecco, leggo a pagina centodieci: La mia cultura la considero un dono che i nostri avi ci hanno tramandato con cura e che dobbiamo custodire gelosamente. Sì, perché forse ingenuamente e illudendomi un po’, ritengo che nelle mie vene scorra una goccia del sangue di Enea, di Romolo, di Giulio Cesare, di Dante, di Fibonacci, di Giovanni dalle Bande Nere e di Lorenzo de’ Medici, di Leonardo da Vinci, di Michelangelo e di Galileo, di Paolo Ruffini, di Mazzini e di Garibaldi...»

Il pubblico applaude. Prendo fiato e concludo.

«Da ragazzo ho letto un libro su Annibale. In un passaggio straordinario – per me una vera rivelazione – l’autore osserva che ci dividono da Annibale solo sessanta nonni.



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